“Il professionista che si rispetti, è anche un problem solver: colui che non solo è bravo ad usare i software o le macchine”. Ma, in caso ci fossero problemi o emergenze, deve essere in grado di risolverli all’istante. “E qui entra in focus, l’effettiva competenza: know-how + cultura + idee + talento + progettualità + esperienza”.
Come si chiama il tuo studio e perché?
“TMB Factory (TMB sta per: The Music Bank), fondato da me e Zenîma. In realtà, il nome lo ha trovato il nostro amico (parlo anche in nome della mia socia) Fabrizio Ferri (il fotografo), in estrema sintesi di Brand Identity. TMB Factory si occupa tout-court di comunicazione, di musica al servizio della comunicazione, nelle sue diverse forme e declinazioni e dei tanti suoi lessici”.
Come hai organizzato lo studio?
“Ci sono due diverse situazioni: la prima, consiste in un home studio con molti synth e modulari dove si sperimenta, si crea e si produce. La seconda, in collaborazione con altri due soci, è rappresentata da 3 studi hi-end e 2 writing rooms in centro a Manhattan. Questi spazi, che hanno un vasto outboard, sono principalmente dedicati a recording e mix. Soprattutto lo Studio A, che ha un’ampia sala di ripresa e una Console API 3208”.
Perché ti sei trasferito a New York?
“Prima di tutto, perché ho sempre adorato e sperato sin da ragazzo, di poter vivere un giorno in questa meravigliosa città. New York e Los Angeles, come Londra, sono ancora i posti elettivi per i produttori e i musicisti. La Grande Mela in particolare è il posto giusto per le persone affette da creatività. Costantemente proiettata verso il nuovo, essendo molto accogliente e ricettiva, è il mio eternal longing finalmente realizzato”.
Ti sei specializzato anche in mix & mastering?
“Sì e ho fatto diversi mix e mastering. Ma separerei le produzioni che curo completamente io (che una volta esportate su ProTools, sono praticamente già mixate), da quelle fatte per conto terzi a produzione finita. E credo sia altrettanto giusto separare i compiti, ossia far mixare e masterizzare contestualmente da chi si avvale di queste competenze”.
Quanto e come sono cambiate le tecniche negli ultimi due anni?
“Qui faccio una premessa doverosa: negli anni ’80 l’elettronica (nata già nella prima metà dei ’60) prendeva il sopravvento e il mercato dei synth era al top rispetto a quello delle chitarre che dominarono la scena fra i ’60 e ’70. Quindi, probabilmente si trattava del momento migliore per acquistare le chitarre vintage. Negli anni a venire i synth da analogici divennero digitali e molti divennero un po’… datati, fatta eccezione per qualche classico tuttora considerato un must come la Roland TR-808. Negli anni ’80 si usavano anche i primi computer per produrre musica e sul finire degli stessi, per evoluzione tecnologica, si passò al digital recording: dai digital tape recorder (Mitsubishi 32 – Sony 48), all’uso dell’audio recording prima su Sound Tools (2 Tracks) e successivamente, su ProTools (Multitrack). Era solo l’inizio”.
Negli ultimi 15 anni DAW, Virtual Instruments e Virtual Effects, hanno decisamente dominato il mercato.
“Cinque o sei anni fa, oltre che a un grande sviluppo dedicato ai modulari (EuroRack), c’è stato un ritorno di fiamma verso i synth vintage, con prezzi giustificatamente alle stelle. Nel frattempo alcuni grandi marchi, visto il boom, hanno pensato bene di rimettere in commercio i sintetizzatori che avevano segnato la storia dell’elettronica. E in due anni l’hardware vintage ha perso in termini di valore commerciale. Ma basta non perdere mai di vista il gusto”.
Alla luce di questo, le tecniche e le tecnologie sono davvero cambiate?
“Con l’introduzione dei nuovi computer con 10, 14 e 18 core si lavorerà al 90% solo con questi. I synth virtuali, suonano benissimo. Inoltre, c’è un incredibile scelta di audio samples libraries. Ma, ripeto, restano di fondamentale importanza le idee. E con esse, le canzoni e la musica su cui si lavora, insieme alle effettive capacità di chi le realizza e produce”.
Quanto è ancora necessario utilizzare macchine analogiche per il mastering? Si può fare tutto in digitale, oggi?
“Secondo me si può fare tutto in digitale, poi logicamente, ognuno è comunque libero di usare quello che gli piace di più”.
Pensi stia finendo l’era della loudness war?
“Credo di sì. Ormai, è passata anche perché non serve a niente, visto che molte di queste piattaforme livellano tutto automaticamente. Fra social media, curation e playlist, freemium, streaming e download la musica è su Facebook, Apple Music, Spotify, YouTube, Vevo, Tidal e SoundCloud”.
Che DAW usi e perché?
“Logic per creare e produrre, l’ho sempre usato e lo trovo molto musicale e intuitivo. Mi piace anche Cubase, ma per abitudine lo uso poco. Per finalizzare, passo a ProTools perché suona sempre benissimo, è stabile ed è sempre lo standard”.
Come vedi il mercato musicale negli anni a venire?
“Difficile a dirsi, nel rapporto fra arte e tecnologia, ora c’è una saturazione di tutto. Troppo di tutto. Fuori da questo e tirando le somme, emergerà probabilmente il dominio dello streaming, mentre si cercheranno più contenuti e più qualità alla sorgente. Sicuramente, la dimensione live funzionerà sempre anche grazie all’implementazione della multimedialità domestica. Ma ci vorrà ancora molto per tornare ai livelli di mercato di fine anni ’90. Restando a oggi e pensando all’Italia, i talent a conti fatti non portano a nulla e i social andrebbero usati con molta più saggezza”.
Non bisogna adeguarsi al marketing dei fatti personali? “Oggi conta di più apparire in TV e innescare il pettegolezzo, parlare del privato e mostrare emozioni forzate. Appiattendo il proprio ruolo. Vedo artisti con anni di carriera che si prestano a fare i giudici o i coach nei talent show ad allievi che scavalcano la soglia del rispetto, mentre il pubblico applaude. Questa è musica che perde valore in modo funzionale e progressivo. La sua percezione è distorta, ridotta, compromessa. Lo penso con dispiacere. È un discorso un po’ complesso ed etico. Servirebbe tornare indietro: partendo dal fatto che gli artisti dovrebbero restare aderenti alla propria mission: realizzando bene le cose. E rispondendo, per esempio ad interviste pertinenti: parlare cioè di come hanno realizzato un album ed evitando di scadere negli psicodrammi populisti a favore del consenso, che con la musica in sé nulla ha a che fare”.
Ti conosciamo come esperto in pop. Ti cimenti anche in cose elettroniche?
“In realtà, ho molteplici visioni. E in effetti, sono esperto in elettronica: sono nato con i Kraftwerk, i Depeche Mode, i Tangerine Dream. Ho collezionato vintage synth per anni e per me i sequencer hanno dato una svolta epocale alla musica”.
Per la musica elettronica, che aria tira negli USA?
“Funziona sempre. Un sacco di gente sperimenta con synth e modulari sempre più declinati verso l’elettronica. Brooklyn Synth Expo quest’anno è stato un successo e con una grande affluenza di pubblico. Inoltre, qui a New York, si assiste a moltissime performance e dj set di artisti underground davvero innovativi”.
Quali sono secondo te dj da tenere sott’occhio, quelli che ultimamente hai avvertito come più creativi?
“Chainsmokers e Marshmello”.
Cosa vorresti fare che ancora non hai fatto?
“Mi piacerebbe creare un controller universale intelligente, non fornito solo di numerose manopole, ma di qualcosa in più. Lo vorrei interattivo e organico qualcosa che mi possa offrire un feeling analogico. Questo secondo me, ancora manca”.