Scomodare i Queen e David Bowie per un pensiero sulla musica elettronica non è mai conveniente. Ma se ci sono periodici che indossano il chiodo e sbattono i Daft Punk in copertina, perché non posso farlo anch’io? “Under Pressure” era ed è un gran pezzo, con quel basso che sembrava anticipare la French house, ed è anche una gran fotografia contemporanea della società: lo specchio dei tempi. Il mondo è sotto pressione ed è un gran casino perché manco la meditazione riesce a risolvere la magagna. Delle fissazioni e delle paranoie sono pieni i lettini degli psicanalisti, lo sanno bene quelli che hanno scritto, pensato e prodotto “The Red Man”, film diretto da Jimmie Gonzales e prodotto dal dj visionario John Acquaviva. Vivere da nababbi è bello ma dopo un po’ ti logora e implodi: hotel a cinque stelle, (se sei un maschietto) femmine a go go, jet (privati), set (ad alti livelli) rendono la vita inizialmente una figata e alla lunga un inferno (ma non a tutti). Come entrare in un luna-park al mattino e non uscirne mai, comunque: il gioco è bello ma non in eterno.
Le superstar dj immerse nel lusso estremo nascondono un carattere, più o meno forte. La De Filippi ci farebbe un programma: Introversi & Estroversi. Lati oscuri, momenti di sconforto, di debolezza, solitudine, depressione. Benedetto fu il dj resident, che aveva una stretta di mano, un free drink di cittadinanza, un letto vicino alla consolle, lontano dal pensiero costante di girare il mondo in modo costante, anzi vertiginoso. Sappiamo che è nato prima l’uovo che la gallina (ti intendi di cellule?) ma non sappiamo se è nato prima il Tomorrowland o i protagonisti da (so)spingere sul main stage. Festival, kermesse, fiere, appuntamenti portano a tournée che manco i Beatles avrebbero immaginato. Tanto che è nata Help Musicians, associazione che supporta gli artisti nei momenti di crisi offrendo aiuti concreti senza che nessuno debba interrompere la propria carriera.
Luoghi esotici che a malapena vedi, perché non fai a tempo ad arrivare in aeroporto, scendere dalla scaletta del velivolo brandizzato, farti una doccia, consumare uno spuntino da solo al tavolo (gli altri sono a divertirsi e al massimo hai un collega o un manager), che sotto c’è il van con i vetri oscurati che corre nelle retrovie di una città smarrita, con tu che sei smarrito, ipnotizzato, con la gente che ti bussa e tu sei come in un acquario, non capisci un cazzo ma sorridi, perché i fan sono l’unica cosa che ti è rimasta. E non sono come mamma e papà, se li tradisci (con una collab, un genere, un atteggiamento, una fuga), riescono ad annientarti con un arma letale: ignorandoti. E sei solo più di prima. Anche Moby ha deciso di non fare più tour. E anche deadmau5. Tramite social, quest’ultimo ha detto: “Come molti altri esseri umani, devo gestire problemi di depressione di cui non voglio rivelare troppi dettagli”.
Forse è più bello sognare (di arrivare). Sogni di fare cose, vivi per vedere come va a finire (…) e stai nella tua bolla con le tue speranze: avrai tante bollette da pagare, mutui da colmare, ma non dovrai gestire #riccanza e ricchezza, arricchimenti e isolamenti. Sonno irregolare, lontananze dai propri cari, turbolenti alti e bassi, carriera un po’ così, una voglia di mandare tutti a quel paese ma poi perché, quando con un drink dimentichi tutto senza pensare che la mattina dopo avrai un mal di testa indicibile? Sotto pressione. La salute mentale degli artisti spesso tira brutti scherzi. Avicii ne è un esempio recente. Prima di lui ci sono stati Janice Joplin, Kurt Cobain, Jimmy Hendrix, Jim Morrison e Amy Winehouse. E non c’è microfono, chitarra o cd player che tenga. Sono note stonate.
Erick Morillo ha rivelato che la sua vita stava diventando una spirale con caduta a picco quando iniziò a farsi di ketamina; Carl Cox a inizio anni Duemila iniziò a bere, drogarsi e fumare trovandosi in uno stato di salute pessimo. L’inglese ha detto di essere cresciuto negli anni ’70 quando c’era un sacco di odio razziale nei confronti delle minoranze etniche. “La scena del rave nel suo insieme è stata così incredibile perché non ha discriminato nessuno, non importava se ti piaceva la musica stessa: ci sarebbero state altre persone con la stessa mentalità che avrebbero accettato il fatto di divertirsi. Quindi, sono abituato alla pressione”.
Cox poi si è soffermato sulla crescente popolarità della musica dance elettronica e dei dj su scala globale che stanno influenzando il mondo e diventando frenetici. “Gli artisti sono cambiati, gli orari dei viaggi e l’organizzazione pure. Pare sia diventato un lavoro e un ruolo solitario, quello del dj. Sali sul palco davanti a 2000 e più persone a suonare la tua techno, la tua house, vorresti soffermarti a parlare con tutti ma devi scappare via, salire su un furgone con i vetri oscurati e correre nella tua camera d’albergo e lì resti da solo. Non sto dicendo ‘oh povero me’ ma la cosa ha un certo effetto su chi sei, sulle persone sensibili. Quando ho iniziato a fare il dj questa intensità era inesistente, gli unici dj che suonavano con questo ritmo erano quelli radiofonici con il loro show da 50-60mila giovani urlanti. Oggi questa organizzazione sembra un’operazione militare. Mi chiedono come io faccia a suonare in 3 feste, in 2 giorni, in 3 paesi diversi e non so cosa rispondere. A volte prendo un volo normale, a volte ho bisogno di un jet privato per essere in grado di fare tutto, ma alla fine della giornata l’obiettivo è quello di suonare. Quando sei giovane e hai sete di date, queste cose non le capisci ma col tempo comprendi tutto. Pubblichi il tuo brano, finisce al vertice delle classifiche e tutti ti adorano: le ragazze, i colleghi. Il brano successivo non ha lo stesso effetto sulla gente: non c’è più l’effetto-sorpresa e i fan pretendono di più. Pensi a essere più pop, più commerciale, più forte di prima. Qualcosa va storto”.
La depressione è dovuta alla solitudine, anche se si vive in un attico a New York, questo mentre coetanei ti guardano come un alieno, haters dai social ti massacrano di insulti e finti amici ti svolazzano attorno come avvoltoi che hanno trovato il pollo da spennare o il forziere da scardinare. Tutto poi accade con un’estrema velocità: non hai un vero e proprio lavoro, sei un dj che tuttavia viene mosso dall’amore per quello che fa e arrivi a (intra)vedere il mondo.
Jet lag, jet set, che casino. Tony McGuinness degli Above & Beyond dice di far fatica a ricordarsi come è fatto il suo letto a casa. Steve Aoki, produttore del documentario “I’ll Sleep When I’m Dead” (“Dormirò quando sarò morto”), l’ho visto con i miei occhi al Tomorrowland (qualche anno dopo lo sguardo assorto, perso di David Guetta, che fece storia) fare stretching e meditazione: gli piace sbandierare anche l’idea che dei brevi pisolini possano cambiarti la vita. Sono tutti vegani col nutrizionista degli altri.
Gilles Peterson è stato uno dei migliori dj del mondo, per almeno tre decenni. Tuttavia il suo fascino con il settore resta vivace, brillante e interessante come sempre: Peterson ha comunque molte cose da raccontare, dall’alto della sua esperienza. Ciò accade anche nella sua “Psicologia del DJing”, dove, grazie a Wetransfer Studios, intervista cinque dei suoi colleghi preferiti per esplorare la vita dietro i giradischi. Perché fanno i dj? Come gestiscono la pressione? Che cosa è come si costruisce una professione da una passione? Peterson dice: “Dopo essere stato nella cabina di pilotaggio per più di 30 anni, resto sempre affascinato da ciò che gli altri dj mi dicono. Amo ancora questa professione ma ci sono stati momenti di forte dubbio durante i quali avrei voluto mollare. Quindi questo è quello che volevo sapere in questa serie di chiacchiere con alcuni dei miei personaggi preferiti sul circuito mondiale: gli alti e i bassi del djing e del clubbing”. La serie propone intime conversazioni con Seth Troxler, Black Madonna, Craig Richards, IG Culture e Cassy. Ogni discussione assume una svolta leggermente diversa, che copre tutto dai primi approcci alle prime pressioni davanti al pubblico. E sono sfoghi. Poiché Peterson ha vissuto già questa fase, tutti e cinque i suoi intervistati hanno reagito in modo molto positivo alle domande. Come se Peterson li avesse rasserenati.
Sulla scia infinita del suicidio Avicii, Armin van Buuren invita tutti a darsi una regolata e che l’industria della musica dance elettronica si svegli. Parlando della morte del collega svedese, l’olandese ha sottolineato le pressioni odierne sulle grandi star del clubbing. “Ogni dj, non importa quanto grande o piccolo, si occupa di una certa quantità di insicurezze e la pressione può essere infinita. Ogni artista è un perfezionista. Leggiamo tutto ciò che viene detto su di noi. Questa è la verità. Ma se fai del tuo meglio, allora quello è il meglio che puoi fare. Se puoi dire a te stesso: ‘ho lavorato sodo su questo set, o su questa produzione, ho investito tutto il mio tempo e il mio impegno, quindi è il meglio che posso fare’. Immagino che Tim fosse spesso insicuro; e questo è terribile se sei così, hai bisogno di alcol per esibirti, stare sul palco. Immagino poi che tutti abbiano qualche metodo per gestire questo tipo. Questo è un campanello d’allarme per tutti i dj del mondo”.
Migliaia di persone sono lì per te e ti guardano. L’adrenalina è a mille e anche la responsabilità, l’attenzione al dettaglio. Un rumore assordante e poi il silenzio della suite. Cosa è normale e cosa no? Ansia, disturbi mentali, paranoie, attacchi di panico. Gli artisti continuano a spingersi oltre. Le band se la passano un po’ meglio dei dj, di solito vanno in tour in occasione di un (supporto al) nuovo album. I dj sono in tournée costante: le pause non esistono. Se Avicii ha collezionato 813 spettacoli nel corso della sua breve ma intensa carriera, esibendosi anche fino a 320 volte in un solo anno, c’è chi è andato ben oltre: capo cannonieri delle doppiette. Un set ogni sera e più. È tutto così borderline. Tutto è spinto al limite. Ma ne vale la pena?